Lontani, quegli episodi di Milano, Roma, Berlino, che forse lo vollero più sperimentale, e meno contemplativo, Gianluca Concialdi (Palermo, 1981) dal rientro in Palermo, patria che ben sfida gli animi, riprende in mano, sotto felici e fraterni incoraggiamenti, una delle prassi pittoriche a lui più riuscite: s’intende quella delle grandi carte da spolvero, conosciute già nel 2010. Queste, due metri per due metri suppergiù, tinte su ambedue le facciate, perché l’occasione non si finga mai ladra, e appese, a mo’ di bucati, stesi, umidi e flaccidi dalle balaustre dei balconi. Loro protagonisti di Vucciria, smollati con quella casualità che sorprende sempre “gli intrusi dei vicoli”, quasi possedessero l’epifanica incognita del bello di brutto, pur essendone inconsapevolmente estranei.
I suoi rossi sono più rossi, i blu e i bianchi soprattutto. I verdi, i rosa e via scorrendo, pure. Concialdi è pittore prima che artista. Sebben molti contestino la questione, la pittura gli arriva, diretta; vien più e prima delle altre. Libera fra le ragioni, è sovrana sopra la speculazioni dell’essere. In potenza, la sola, abile a ritrarre i profili e la corposità di cui si compone l’inconscio: laddove l’orbe di un occhio è cieco, si annuncia come la forma più spontanea di auto-espressione, valida e coerente solo verso chi ne realizza l’atto. Cosicché, in questa proiezione di orbi (...)
Lontani, quegli episodi di Milano, Roma, Berlino, che forse lo vollero più sperimentale, e meno contemplativo, Gianluca Concialdi (Palermo, 1981) dal rientro in Palermo, patria che ben sfida gli animi, riprende in mano, sotto felici e fraterni incoraggiamenti, una delle prassi pittoriche a lui più riuscite: s’intende quella delle grandi carte da spolvero, conosciute già nel 2010. Queste, due metri per due metri suppergiù, tinte su ambedue le facciate, perché l’occasione non si finga mai ladra, e appese, a mo’ di bucati, stesi, umidi e flaccidi dalle balaustre dei balconi. Loro protagonisti di Vucciria, smollati con quella casualità che sorprende sempre “gli intrusi dei vicoli”, quasi possedessero l’epifanica incognita del bello di brutto, pur essendone inconsapevolmente estranei.
I suoi rossi sono più rossi, i blu e i bianchi soprattutto. I verdi, i rosa e via scorrendo, pure. Concialdi è pittore prima che artista. Sebben molti contestino la questione, la pittura gli arriva, diretta; vien più e prima delle altre. Libera fra le ragioni, è sovrana sopra la speculazioni dell’essere. In potenza, la sola, abile a ritrarre i profili e la corposità di cui si compone l’inconscio: laddove l’orbe di un occhio è cieco, si annuncia come la forma più spontanea di auto-espressione, valida e coerente solo verso chi ne realizza l’atto. Cosicché, in questa proiezione di orbite ove il panorama è tradotto in corpi amorfi, il pittore Concialdi risolve l’equazione di psiche-sostanza-sembianza, all’apice della fantasmagoria: quella sua, muta voce che parla coi fantasmi, li chiama, e li fa apparire in figure luminose, sospese e fluttuanti. Se dunque queste sagome fluttuano, allora anche le evidenze dell’essere fluttuano insieme, come rivelazioni di soggetti nebulosi, creati a somiglianza del sé. Sono illusioni periscopiche di deliri fantasmagorici, non di notti insonni o visioni oppiacee, sono spiriti che sfuggono alla più melanconica ed occasionale religione dell’essere, come se tutto il suo universo, psichico e pittorico, stesse in equilibrio fra il fianco di un gallo e l’incavo di uno scopino da bagno.
Tra le Pizzerie Gargamella, Pazzo Pappagallo, la Taverna Azzurra, il Cimitero dei Rotoli, il Parchetto dei drogati – toponimi a cui dedica il titolo dei suoi dipinti – molte forme Pollo Fantasma ritornano, alcune di frequente, altre di rado, altre solo d’inverno, mentre d’estate vanno a prendere il sole al Lido Cruccichia, E’ un abbandonarsi come su nubi, non troppo liquide da non poterne imprimere la faccia, e non troppo compatte perché non ne trapassi lo strato di colla, di cui è composto il colore, che vien di volta in volta impastato con dell’altro e steso sulla superficie, con bracciate ampie, lunghe, quasi a compiere nel loro punto massimo, lo sforzo atletico del getto del peso. Sarà il peso dell’inconscio? La curva alare di cui s’intitola la mostra, non appartiene certo a questa disciplina olimpica, è affidata alle conquiste dell’artista nei segreti di Palermo. Vale la pena di chiederglielo di persona.
Geraldine Blais
Palermo – Bassano del Grappa, Marzo 2018
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Photo: Marco Davolio